Come anticipato in un precedente articolo, eccoci ad affrontare il tema caldissimo, anche se nessuno pare rendersene conto, del divario tecnologico (detto anche digital divide), che spacca l’Italia in due dal punto di vista dell’accesso alle risorse tecnologiche che forniscono strumenti indispensabili a telelavoro (lo smartworking è un’altra cosa, lo affronteremo più avanti) e didattica a distanza.
Partiamo dal presupposto che anche in condizioni normali, se non ci trovassimo nella situazione attuale causa covid, il problema sarebbe comunque reale e grave, in quanto la possibilità di dotarsi di strumenti digitali dsitribuiti (in cloud) si sta affermando sempre di più come standard per una maggiore competitività in ambito professionale e commerciale.
Inoltre, consente di fronteggiare con armi efficienti l’impossibilità a muoversi sul territorio durante periodi di quarantena o coprifuoco o limitazione nei viaggi tra comuni e regioni in periodo pandemico.
Ricordate che a marzo e ad aprile qualunque attività nell’ambito alimentare ed enogastronomico ha potuto far circolare dei pratici pdf e file excel, comodamente compilati sul portatile di casa e diffusi a clienti o potenziali tali via whatsapp, trasformando di fatto una potenziale crisi in un innalzamento della curva dei ricavi.
L’unica barriera di accesso era il possesso di uno smartphone con cui gestire l’invio degli elenchi e la ricezione degli ordini.
Facile, efficace, vincente.
Ovviamente la telefonia mobile è talmente diffusa, che nessuno è stato tagliato fuori da questa dinamica.
Ma la cosa si fa molto diversa se si inizia ad andare in ambiti in cui sono richieste lunghe sessioni audio-video, come riunioni di lavoro e lezioni scolastiche.
Qui le barriere sono addirittura due:
- qualità della connessione (identificate in velocità e stabilità)
- la quantità di dati a disposizione nel proprio piano tariffario (comunemente quantificati in “giga”)
E qui casca l’asino.
Molte località non sono raggiunte da infrastrutture fisiche via cavo, nonstante si faccia un gran parlare di fibra ovuqnue, in tv e sui giornali, mentre le connessioni dati, efficienti in territori pianeggianti e densamente abitati, ma altalenanti in condizioni meno favorevoli, non forniscono la qualità di banda necessaria a sostenere con serenità lunghe sessioni di videocall.
Viene poi il tema economico, che è quello che mi preme maggiormente.
Una connessione adeguata costa 40/50 euro al mese e la sensazione è che ci sia una sorta di cartello dei prezzi, dato che tutte le compgnie offrono tariffe molto simili.
Ad ogni modo, stiamo parlando di una cifra ragguardevole, specie se rapportato agli stipendi più bassi, molto diffusi soprattutto nelle zone più depresse e meno interessanti per gli operatori.
Un serpente che si morde la coda.
Certo, se lo stato possedesse ancora una bella telecom, sarebbe in grado di trainare il mercato con offerte convenienti e lanciare campagne di posa urbis et orbis delle infrastrutture necessarie.
Invece tutto è lasciato in mano ai privati, che fanno esclusivamente la propria convenienza, com’è naturale che sia, ma questo è uno dei grandi lasciti delle privatizzazioni selvagge fatte nell’ultimo mezzo secolo, senza alcuna lungimiranza e per esclusiva contingenza momentanea (liquidità subito, al futuro ci penseranno altri).
Questo di cui vi sto parlando in dettaglio è sempre stato un punto centrale dei 5stelle, in particolare tanto caro a Di Maio, che sbanfduerava un’Italia digitalizzata e adeguata alla contemporaneità.
Ma come tante altre promesse, tutt’altro che irrealizzabili, è finito nel nulla più totale ed ora bambini e adolscenti, in primis, ne pagano le conseguenze.
Chiunque abbia seguito più o meno da vicino l’evoluzione del contesto tecnologico degli ultimi vent’anni, sa perfettamente che ad oggi abbiamo fondamentalmente gli stessi problemi strutturali – e culturali – degli albori dell’informatizzazione del pianete, processo costante ed inesorabile.
Nel frattempo la politica fischietta e fa spallucce, magari promette tanto per calmare gli animi, ma poi di fatto non produce risultati in questo senso, da mai.
L’Italia è già di per sè un paese che ha difficoltà a non rimanere indietro, è necessario uno sforzo progettuale a breve, medio e lungo periodo che ci metta in condizione di evolvere da stato-scimmia a stato-sapiens e ci renda emancipati dal punto di vista della competitività in tutti i suoi ambiti.
Il resto sono solo cazzate.
D.M.