L’état, c’est moi

Con colpevole ritardo, ho visto il video di Giuseppi e ascoltato le sue dichiarazioni di ieri di fronte a Palazzo Chigi.

La prima cosa da rilevare è che si atteggia già da grande statista, che forse è un pelo prestino.

La seconda è che ha un linguaggio diametralmente opposto a quello dei suoi colleghi e predecessori, che vedono nella pescivendolamadrecristiana un estremo caricaturale, ma che in realtà è diffuso ovunque in parlamento, con sfumature e gradazioni diverse a seconda del personaggio.

Quello di Conte è un linguaggio asciutto, composto, istituzionale, non da venditore di aspirapolvere porta-a-porta, come siamo stati abituati a vedere da Berlusconi in poi.

I giornalisti italiani, che poverini sono sempre a rincorrere, si soffermano sulla irritualità della dichiarazione, ma la notizia, notevolissima, è un’altra: Conte ha chiaramente lanciato una corsa futura di ampio respiro temporale e geografico, nettamente progressista e in deciso contrasto con la non-cultura populista, nazicatto e ultraconservatrice della destra italicamente nostalgica e buzzurra.

E nel farlo si regala un auto-endorsment molto convinto e convincente.

Vuole imporre una visione attuativa della contemporaneità politica che sia realmente consapevole.

Ed è la dimostrazione che la malattia della politica in Italia è un problema endemico di mentalità: esattamente come genitori coglioni rischiano seriamente di crescere e formare figli coglioni, un sistema politico che ammicca alle pulsioni becere di pancia continua ad alimentare l’arrivismo di gente senza scrupoli e senza alcun progetto di breve, medio o lungo periodo.

Infatti basta cercare a caso nel società studiata, culturalmente – e professionalmente, non dimentichiamolo – evoluta, che al primo colpo becchi subito uno varie spanne sopra gli altri, che in tre anni, da zero a cento, diventa un faro nella notte buia del politicantismo becero all’italiana.

Allora mi si accende una lucina in un angolo oscuro della mente: forse un’altra Italia è davvero possibile.

D.M.

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